“IL MONDO STA IMPAZZENDO”

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IL MONDO STA IMPAZZENDO

Non è la citazione di qualche nuovo film distopico ricolmo di effetti speciali; non è l’esclamazione melodrammatica di un disilluso che legge i giornali o anche solo i titoli, ascolta le notizie o che semplicemente si guarda intorno, per quanto la conclusione sarebbe estremamente simile, in modo inquietante; né tantomeno l’urlo di battaglia del politico di turno che spera di attingere voti dall’elettorato più facile, quello degli scontenti. No.

È tutto reale, nessuna esagerazione né ideologismo. È il succo dell’affermazione di chi di pazzia se ne intende. Stiamo parlando di Devora Kestel, il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’agenzia dell’ONU che si occupa di salute e benessere. Secondo le ricerche recenti, infatti, la depressione è in aumento, di pari passo con l’abuso di sostanze e i tentativi di suicidio. Ogni giorno siamo più patologicamente tristi, ma il dato davvero preoccupante è che lo siamo più precocemente, e per più tempo.

Cominciamo da più giovani e lo siamo più a lungo nella vecchiaia. La vita, insomma, si è allungata, il progresso scientifico fa balzi da capogiro, stiamo escogitando come affrontare l’universo aperto, inventandoci vele spaziali che navigano a velocità sempre più fotoniche, ma pare che il terreno conquistato lì su, lo stiamo perdendo qui sul pianeta terra, dentro di noi, dove le ombre, nel lento divenire del quotidiano, sono più grandi e grottesche che mai.

Nessuna notizia dalla NASA su una qualche sonda che ci aiuti ad analizzare rocce e polveri dell’interiorità, anzi, dai dati pare che la ricerca di modi che ce ne allontanano, attraverso sostanze, dipendenze e altre strategie più o meno coscienti, sia in continuo fermento. È uno dei tanti paradossi dell’era moderna. La civiltà si racconta come orientata al successo attraverso i sorrisi nei manifesti ed alla TV, mentre i demoni dietro le luci al neon ci narrano una storia diversa.

È una storia che parla di morte e desolazione, per di più in una società in cui di morte è proibito parlare. È una parola bandita dal vocabolario, un tabù della tribù ultramoderna, perché ne viola e minaccia i presupposti. Ci ricorda della fragilità in un contesto in cui la potenza ed il potere sono parole d’ordine, ci ricorda della brevità in un’epoca che tende all’infinito, della sofferenza in un quadro di overdose di ottimismo, dell’impotenza, del limite, dell’umanità quando ci preferiremmo divinità.

Così si muore, ma lentamente, magari nascondendo i segni della necrosi in atto, spesso addirittura proprio nel tentativo di curarsi da quel senso di morte che aleggia come una nube di smog sull’imponente grattacielo del “tutto è possibile, ed anche subito”; ci si allontana dalla vita pezzo dopo pezzo, buco dopo buco, o all’improvviso, in un incidente stradale come molti giovani, quasi a voler avere la possibilità di dare la colpa ad un infausto destino.

E se fisicamente non si muore, che si anestetizzi il vuoto interno, il lutto incolmabile dell’anima, o che venga riempito di movimento ciò che, intimamente, è fermo, immobile, esanime. Internet, cellulari, frenesia, connessione continua. Tutto pur di non sentire, di non ascoltarsi, mentre il tessuto sfilacciato della comunità non offre reti di contenimento, di attutimento della caduta di valori, certezze, punti di riferimento sociali, politici e culturali.

Il “mal du siécle”, che a pensarci si riferiva al secolo scorso, ma che a quanto pare ci siamo portati oltre la soglia del 2000, prolifera ancora, spesso non visto, nei vicoli della società attuale, attecchendo fra le maglie delle coordinate spazio-temporali appena espresse e le storie personali, peculiari, irripetibili di ognuno.

Nel suo replicarsi, mutare nelle forme, sempre comunque legate a tutto ciò che riguarda l’autodistruzione del singolo e dei gruppi, ci segnala un concetto importante, una lezione di vita se vogliamo. Ci invita, cioè, a spostare ogni tanto gli occhi dalla luna, e ad osservare il dito e chi indica. Probabilmente non ci aiuterà a conoscere nuove forme di vita extraterrestre, ma ci terrà in contatto con noi stessi, e a sentirci un po’ meno vuoti, un po’ più sani di mente, un po’ meno alieni.

Ufficio Stampa Insieme

Ph. I tamburi dei briganti

 
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